Timothy Leary (1920 – 1996), scrittore, psicologo e attivista statunitense, professore ad Harvard negli anni sessanta, fu allontanato dall’insegnamento perché teorizzava l’uso del LSD come strumento per ampliare la percezione e la “coscienza”individuale. Famoso per essere stato uno dei guru del movimento pacifista degli anni ’60, promotore della Beat Generation insieme a Allen Ginsberg, Jack Keruac, William Burroughs e Lawrence Ferlinghetti, collaborò con Allan Watts, filosofo inglese celebre divulgatore del pensiero Zen e con Aldous Huxley, poeta e saggista inglese considerato un mistico della ragione. La sua vita fu intensa ed avventurosa, lo slogan che lo rese celebre “Turn on, tune in, drop out” è ancora attuale. Al di la dell’ l’acido lisergico, che indicava come mezzo per la liberazione individuale, le tre azioni che auspicava per vivere una vita consapevole ed entusiasmante, cioè accendersi, sintonizzarsi e agire grazie ad un pensiero creativo, sono a tutt’oggi un indicazione preziosa per ognuno che intenda andare oltre l’ordinario.
“E’ un concetto che mi ha insegnato Marshall McLuhan. Il significato è semplice: Turn on significa attivare la divinità o il grande spirito che è in ognuno di noi. Da migliaia di anni tutti i filosofi ripetono qualcosa di simile, accendi la spiritualità che è in te. Tune in significa che una volta che sei attivato spiritualmente e sei pronto per tornare in mezzo agli altri, devi trovare un mezzo per manifestare la tua nuova consapevolezza: dipingi, scrivi, suona qualcosa che sia in grado di esprimere la tua personalità. Drop out non significa una sorta di isolamento dovuto al consumo di marijuana ascoltando rock, ma un invito a cambiare la vita. Significa fare più cose possibili entrando ed uscendo dalla realtà”.
“Ho imparato a concentrare l’attenzione sulle domande filosofiche più eclatanti e cruciali: chi ha scritto il copione del cosmo? Cosa si aspetta da me il il DNA? Il grande spettacolo del codice genetico va in onda in diretta o è registrato? Chi è lo sponsor? (tratto da un intervista a Playboy del 1966)
(Timothy Leary)